"Tempi moderni - Il businessman"

“Il businessman”
Vuoi capire come funziona davvero l'affare dell'immigrazione?
Te lo spiego io.
Non come lo raccontano nei talk show o nei documentari lacrimosi.
Te lo spiego come lo raccontiamo tra noi, a porte chiuse, nei corridoi dei ministeri, nei briefing delle fondazioni, nei retrobottega dei convegni.
Il business dell’immigrazione è perfetto.
Funziona su più livelli, come una piramide.
Alla base ci sono loro, la carne. I migranti.
Non conta se sono poveri, medi, disperati o semplicemente furbi.
Conta che si muovano. Che partano. Che arrivino.
Ogni corpo è una transazione. Ogni barcone è un bonifico a più zeri.
I trafficanti?
Sono solo il livello più rozzo.
Uomini armati, milizie, criminali da quattro soldi che organizzano i viaggi e incassano la prima quota.
Ma sono solo i fornitori di materia prima.
Come i contadini della coca in Colombia.
Il vero guadagno è dopo.
Quando la barca si avvicina alle acque europee, entrano in gioco le ONG.
Si dicono missionari, umanitari, angeli del mare.
E in parte lo sono davvero. Ma inconsapevoli, o peggio: ben consapevoli di essere l’ingranaggio successivo.
I trafficanti lo sanno.
Mettono la benzina giusta per arrivare dove comincia la zona SAR.
Tanto dopo c’è la nave delle ONG che completa la tratta.
Le chiamano «operazioni di salvataggio».
Noi le chiamiamo «logistica sussidiaria».
Più sicura di un charter.
Appena sbarcano, i migranti diventano una partita di bilancio.
Ogni Prefettura ha tabelle precise: tot euro al giorno per adulto, il triplo per minore, fondi extra per vulnerabilità.
A chi vanno?
Alle cooperative, alle associazioni, alle parrocchie convenzionate, ai consorzi sociali.
Soldi pubblici.
Bandi.
Capitolati di gara che noi stessi scriviamo, costruiti su misura.
Con l’alibi della solidarietà e dell’inclusione.
I Governi?
Contenti.
Ogni migrante è un punto di PIL: consuma, affitta una stanza, compra schede telefoniche, spedisce soldi a casa pagando commissioni alle banche.
E poi serve a tenere bassi i salari nei campi, nei cantieri, nei magazzini.
Il segreto del «made in Italy competitivo» non sono solo le etichette.
Sono le schiene spezzate di chi non ha contratto.
Ma guai a dirlo.
Ufficialmente, è tutta un’emergenza umanitaria.
I colletti bianchi?
Gli strateghi, i think tank, le fondazioni.
Quelli che pubblicano dossier sulle «benefiche migrazioni».
Che spiegano ai giornali perché abbiamo bisogno di importare due milioni di giovani africani entro il 2050, per «sostenere il welfare».
Sono loro a scrivere la sceneggiatura.
Le ONG sono solo gli attori.
I politici i registi.
Il pubblico paga il biglietto con le tasse e applaude senza capire.
O si indigna, purché si resti nel teatro.
Poi ci sono io.
O gente come me.
Funzionari, consulenti, mediatori di progetti internazionali.
Campiamo di questa macchina.
Ogni flusso migratorio garantisce stipendi, conferenze, workshop a Bruxelles, viaggi studio in Tunisia, audit, monitoraggi.
Tutti perfettamente legali.
Tutti splendidamente fatturati.
Vuoi sapere il segreto più sporco?
Se domani finissero le migrazioni di massa, non piangerebbero solo i trafficanti libici.
Piangeremmo noi.
Le ONG licenzierebbero migliaia di operatori.
I Ministeri taglierebbero dipartimenti.
I sindacati perderebbero tesserati.
I colossi bancari vedrebbero calare i flussi di rimesse.
Il PIL stesso rallenterebbe.
Questo è il business.
Un sistema elegante, complesso, redditizio.
Una catena di valore costruita sulla speranza e sulla disperazione.
E tu che leggi, indignato, non sei che un altro spettatore pagante.
A cui vendiamo l’unico prodotto che non si esaurisce mai: la colpa.
(da "Tempi Moderni" - Andrea Bigiarini)